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Telaio in ghisa

La storia delle piastre nei pianoforti è una vera epopea di ingegno e resistenza. I primi strumenti a corde, come clavicembali e fortepiani, si affidavano a semplici puntelli in legno per contrastare la tensione crescente delle corde. Con l’aumento della gamma tonale e l’evoluzione tecnologica, comparvero rinforzi più elaborati, dapprima ancora in legno e poi metallici, per rendere la struttura più stabile.

Questa lunga ricerca di equilibrio culminò nell’introduzione di telai metallici completi, capaci di sostenere una tensione mai vista prima.

Dalle prime sperimentazioni alla svolta
Il vero punto di svolta si ebbe nel 1825, quando Alpheus Babcock realizzò il primo telaio metallico per un pianoforte a tavolo. Poco dopo, nel 1843, Chickering adottò piastre in ghisa per i suoi pianoforti a coda, aprendo la strada ai celebri Steinway, che nel 1859 perfezionarono il concetto. Grazie a queste piastre, i pianoforti poterono sopportare una tensione superiore, pur mantenendo il legno come elemento fondamentale per contrastare la spinta esercitata dalla tavola armonica.

L’evoluzione del Novecento
A partire dagli anni ’30, i telai metallici divennero sempre più resistenti e leggeri, riducendo la necessità di travature ingombranti e permettendo la costruzione di strumenti più compatti. Non mancarono tentativi di sostituire la ghisa con acciai saldati o metalli leggeri, ma nessuna alternativa riuscì a garantire la stessa stabilità e capacità di mantenere l’accordatura.

Perché la ghisa
La ghisa si rivelò il materiale ideale: rigida ma capace di smorzare le vibrazioni indesiderate, assicurando così una migliore stabilità dell’accordatura. La sua composizione tipica comprende il 2-3% di carbonio, 1-3% di silicio e tracce di manganese e fosforo. Il processo inizia con la fusione di ferro grezzo, rottami metallici e carbone in un forno, da cui si ottiene un materiale che, una volta raffreddato, esprime al meglio le sue qualità meccaniche e acustiche. Per realizzare la piastra, il progetto tecnico viene trasferito a macchine fresatrici computerizzate, le quali scolpiscono un modello in legno – solitamente in ontano o Delignit – con un margine di espansione dell’1% per compensare il restringimento naturale del metallo durante la solidificazione.

La fusione e la lavorazione
La piastra prende forma in stampi di sabbia e argilla, realizzati in due metà e uniti prima della colata. Il ferro fuso vi viene versato e lasciato raffreddare lentamente. Una volta liberata dallo stampo, la piastra viene pulita, privata dei canali di colata e rifinita. Nelle fonderie moderne si impiegano tecniche avanzate, come la fusione a vuoto, che aspira l’aria per garantire una distribuzione più uniforme del metallo.

La precisione finale
Terminata la fusione, la piastra passa a una fase di lavorazione minuziosa: circa 500 fori vengono eseguiti con macchine a controllo numerico, garantendo un livello di precisione altrimenti impossibile. Infine, la superficie viene sabbiata, stuccata e verniciata, completando il processo che trasforma un blocco di metallo grezzo in una delle parti più nobili e decisive del pianoforte.

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